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RACCONTI

 

 

RECENSIONI

 

 

 

Finalmente sono d’accordo con Feltri


di Castruccio Castracani

 

E' da tanti anni che mi domando “ma quando mai potrò essere d’accordo con lui?” Dove lui sta per Vittorio Feltri Il suo modo di ragionare è così spiccio, ma che dico spiccio è così diretto, ma che dico diretto, è così semplice ma che dico semplice è così …semplicemente banale.

Usa argomentazioni che di solito si è costretti a sentire dal barbiere o al bar mentre si aspetta l’agognato caffé. E poi quel suo modo di scrivere che è così graffiante, ma che dico graffiante è così rude ma che dico rude è così greve ma che dico greve è così volgare che se avesse odore …. Sempre aggressivo, sempre strafottente con l’aria di dire verità rivelate. Ma quali verità, ma quali rivelazioni.

Eppure questa volta ce l’ha fatta: mi ha convinto, sono d’accordo con lui. Questa volta ha svolto l’argomento in modo fino, ma che dico fino sopraffino quando per definire l’attuale situazione elettorale ha scritto*: “Una competizione tra cretini e mascalzoni: questa purtroppo è la sintesi” Bravo. Bravissimo. Semplice, chiaro senza sbavature. Giusto. L’ho pensato anch’io. Però poi mi sono chiesto, lui che è così sanguigno, così virulento così sempre schierato così drastico nei suoi giudizi ma da che parte è stato fino ad ora?

E chi sta difendendo con tanto ardore: i cretini o i mascalzoni?

* Il giornale, Editoriale del 10 marzo 2010

 

13 marzo 2010

 

 

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Ma chi era Ikarus?


di Castruccio Castracani

 

Quando un uomo (o una donna, per pari opportunità) ama in modo particolare un animale od anche una cosa gli attribuisce caratteristiche e qualità umane. Questa attitudine si definisce antropomorfismo, parola che, neanche a dirlo deriva dal greco. Anzi da ben due parole greche: άνθρωπος (anthrōpos), "umano", e μορφή (morphē), "forma".

 

Chi ha “forma di umana” ça va sans dire, deve avere anche un nome, che lo faccia ancora più umano. Di solito questo nome è ben rappresentativo del carattere e delle intenzioni di chi lo ha imposto. Ecco perché il cavallo di Tex Willer si chiama Dinamite mentre quello di Don Chisciotte si chiama Ronzinante, la spada di Re Artù si chiama Excalibur, che in celtico significa acciaio lucente o acciaio indistruttibile, il cane di Ulisse si chiama Argo, che significa veloce (da notare il fine collegamento). Così come al più grande, veloce e lussuoso transatlantico del mondo, anno 1912, fu assegnato il nome di Titanic. Nome perfetto. Anche se oggi difficilmente si può trovare un armatore disposto a battezzare il suo naviglio, foss’anche un gozzo con quel nome. E poi c’è chi ha chiamato Ikarus la sua “barca”. Che non è proprio quel che si definisce un gozzo.

 

Già, ma chi era Ikarus?

Era il figlio di un architetto ateniese, tale Dedalo che inventò e disegnò il labirinto nel quale Minasse, mitico re di Creta, fece rinchiudere il Minotauro e già che c’era anche il suo architetto preferito con tanto di figlio. Dedalo, che era un geniaccio del bricolage, riuscì a fuggire costruendo per sé e Icaro due belle paia d’ali le cui piume erano tra loro saldate con della cera. Naturalmente la raccomandazione di babbo Dedalo al figliolo fu di star lontano dal sole, perché si sa che la cera col calore si scioglie. Icaro, che se fosse stato figlio di un padano, sarebbe stato definito “un trota” al sole si avvicinò. Anche troppo. Evidentemente il fatuo(e perverso) desiderio di essere accarezzato anche se per pochi secondi da quel calore lo eccitava. Ma il brillante risultato di tanta eccitazione fu la caduta.

Icaro precipitò in mare ed andò a fondo. Ora la domanda è: perché ci si ostina a chiamare, per ben due volte, la propria barca con questo nome da “trota”? Evidentemente perché si ha il recondito desiderio di solcare il fondo. Ma allora bisognava chiamarla Nautilus. Più appropriato. Questo l’aveva capito anni fa nonno Nanni quando disse “con questi non andremo da nessuna parte”. E aveva ragione.

 

15 marzo 2010


 

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Il marketing politico

 

La funzionalità e l’immagine di una coalizione-partito-candidato hanno oggi i plus di riconoscibilità ed esclusività nel sistema di relazioni. Le relazioni vivono solo attraverso la comunicazione. Non esiste partito senza relazione, quindi non esiste partito senza comunicazione.

 

 

La politica non è un’automobile, la politica non è un prodotto, la politica non si fa seguendo le metodologie e le tecniche del marketing, la politica è ben altro…”, eccetera, eccetera…
Nell’assimilazione tra politica e automobile vi sono alcuni elementi non condivisibili,  che in verità sono più attinenti all’oggetto formale del confronto che ad altro, ma questo non è il punto rilevante.
Il punto di sostanza è che ogni qual volta si presenta il fenomeno politico come prodotto, prodotto di civile consumo quotidiano, e si tende ad oggettivizzare il processo di  relazione che si instaura tra il partito ed i suoi candidati (l’emittente) ed il corpo elettorale (il ricevente) immediatamente si levano alte voci contrarie e di forte dissenso.
Sarà forse per quell’atteggiamento tipicamente romano-latino che vuole, nonostante il passare del tempo e l’evolversi della società, mantenere integra e rigida la dicotomia tra “spirito” e “materia” quasi che l’uno non tragga dall’altra spunti e stimoli di sviluppo e viceversa…
Sarà forse perché la retorica della teoria prevale (quasi) sempre sul crudo buon senso della pratica…
Sarà forse per quell’innata voglia di pauperismo di maniera (peraltro tutto per gli altri) che spesso caratterizza alcuni intellettuali…
Sarà forse perché….

 

La pratica del buon senso.
Il dato di fatto comunque certo è che, con cadenza più o meno periodica, partiti delle più diverse estrazioni ed i candidati ad essi collegati, ma anche personalità di spicco che catalizzano consensi, (gruppi concorrenti: competitors, leaders e followers), con l’obiettivo dichiarato di ottenere il maggior numero possibile di consensi (quote di mercato), sulla base delle esigenze, dei bisogni manifesti o latenti e delle richieste di gruppi sociali differenti (diagnosticati con analisi e ricerca di mercato), elaborano dei programmi, di norma definiti “concreti” (offerte integrate di servizi), che sottopongono a potenziali elettori (target group), ai quali si rivolgono evidenziando i vantaggi e le caratteristiche delle loro proposte (elaborando un posizionamento ed una immagine), fanno giungere opinioni e promesse (con tutti i mezzi e gli strumenti tipici della comunicazione esterna: dalla pubblicità ad direct mail), e inoltre dimostrano con ogni mezzo quanto le proposte e le promesse altrui siano fallaci (di fatto affrontandosi in un contesto di pubblicità comparativa), ed infine ottengono finanziamenti, proprio sulla base della quantità dei consensi ottenuti (fatturato).
Non da ultimo si avvalgono di apparati tendenzialmente ben istruiti e formati sugli obiettivi e sulle posizioni da sostenere, quindi hanno addetti-dipendenti (verso i quali esercitano attività di comunicazione interna e formazione).

Se quindi si legge il non verbale si ottiene che: gruppi concorrenti, con l’obiettivo di acquisire la maggior quota di mercato possibile, sulla base di ricerche ed analisi di mercato, elaborano offerte di servizi definendo per questi posizionamento ed immagine, che propongono a ben determinati target group, a cui si rivolgono, utilizzando strumenti di comunicazione esterna in un contesto di tipo comparativo.
Se la campagna ha successo e il prodotto ottiene i consensi sperati  oltre che la quota di mercato si incrementa anche il fatturato.
C’è proprio tutto.
Qual è la differenza tra chi propone prodotti o servizi, definiti ed accettati come tali, e chi propone il prodotto schieramento o candidato?  Entrambi cercano di individuare bisogni chiave creando preferenza e combattendo la fungibilità tra possibili alternative.

 

  • Sette elementi chiave
    Per tutto ciò vale quindi la pena di affrontare l’argomento con gli strumenti e la prospettiva d’analisi che sono propri della comunicazione integrata:
  1. 1 –Il partito politico, come peraltro ogni realtà sociale complessa, aggregante, associativa e rappresentativa, nasce sulla base di esigenze e interessi comuni di gruppi di persone. L’essenza dell’istituto partito si è modificata: da connotazione più spiccatamente ideologica, tipica delle società industriali e frutto di una situazione internazionale definita da schieramenti contrapposti, ha perduto, nel contesto post industriale e globalizzato, la prevalente componente ideologizzata per assumere caratteristiche che sono più simili all’adesione ad un modello sociodemografico di riferimento; 
  2. 2 –il partito politico si definisce intorno ad una visione complessiva dell’organizzazione della società che si concretizza in un’idea guida, in pratica nella  sua missione. Ciò comporta atteggiamenti e comportamenti codificati, quindi un posizionamento specifico, unico, nell’ambito della mappa delle alternative della scena politica;
  3. 3 – lo schieramento od il partito politico si caratterizzano come entità massimamente poliedriche ed omnicomprensive: generalisti nella definizione delle questioni di principio (posizionamento istituzionale) ed al tempo stesso specializzati su tutte le questioni che sono inerenti il vivere in comunità (posizionamento di prodotto): il programma..
    Se si escludono alcuni, rari, esempi di partiti di nicchia, cioè partiti che fanno di una sola ed unica e  specifica tematica la loro bandiera, tutti gli altri, indipendentemente dalle dimensioni, sono “condannati” ad avere un’opinione ed una precisa posizione su tutto: dalla agricoltura all’industria, dalla condizione giovanile alle finanze, dagli anziani alle pari opportunità, dalla questione della occupazione alla cultura passando attraverso la viabilità, la manutenzione delle strade, l’ecologia, le case popolari, il verde pubblico ecc;
  4. 4 – deve essere data coerenza tra il posizionamento istituzionale (la missione)  ed il posizionamento di prodotto (il programma) che, come si è detto nel punto precedente riguarda la gestione delle questioni specifiche;
    5 – l’adesione all’idea “forte” dello schieramento o partito costituisce condizione necessaria ma non sufficiente perché l’elettore decida di assegnare il suo voto ad un candidato o ad una lista.  A maggior ragione in questo momento storico che vede grandemente indebolirsi il peso della componente ideologica;
    6 – gli elettori scelgono oramai prevalentemente su base pragmatica ovvero quando riconoscono nelle proposte e nei programmi risposte adeguate ai bisogni ed ai loro immediati interessi. Peraltro può verificarsi il fatto che un elettore condivida la posizione di un partito su un dato tema e contestualmente sia d’accordo con la posizione di un altro partito su un tema diverso. Per chi voterà? Per la questione che più gli sta a cuore: il partito viene scelto di conseguenza.
    Nel caso di più votazioni contemporanee è normale constatare che sono espresse scelte non (sempre) omogenee. La scelta, anche in considerazione di quanto detto al punto cinque, risulta essere sempre meno influenzata da emotività ideologica. Con ciò pur tuttavia non si intende certo negare la valenza e la forza dell’emotività nella scelta, in qualsiasi scelta, ma…
    7 – il metodo di decisione, data la forte componente utilitaristica di salvaguardia e/o di affermazione di interessi, sembra essere assimilabile più a quello che caratterizza l’acquisto dei prodotti industriali, o business-to-business, che non a quello seguito nell’acquisto di prodotti consumer, la famosa automobile di cui si è fatto accenno all’inizio.
    La scelta è cioè guidata più dalla necessità di vedere soddisfatti bisogni precisi che da suggestioni emotive.
    Ne conseguono differenze operative non solo di metodo ma di sostanza.

 

Dovere o piacere?

Nel business-to-business si acquista “per dovere”, per interesse specifico e per sviluppo, laddove la decisione viene presa tenendo in massima considerazione l’utilità concreta che deriva – deriverà – dell’operare una scelta invece di un’altra. Nell’ambito del consumer invece si acquista “per piacere”: la scelta  tra prodotto e prodotto è di molto influenzata da considerazioni soggettive ed emotive, dall’apparire, da pulsioni aspirazionali ad esempio, che senz’altro hanno un peso assai superiore alle specifiche caratteristiche dei prodotti (sempre più uguali tra loro) ed ai concreti benefici che ne deriveranno per l’acquirente.
Quindi il voto come dovere per la soluzione di un problema concreto.

 

Come lavorare con e su questi elementi base?

Diceva Francis Bacon, filosofo e ministro della Giustizia inglese all’epoca di Shakespeare, circa quattrocento anni addietro, che è indispensabile per i politici avere una visione di lungo periodo e di non cadere vittime della “tirannia dell’umore del momento”.
Ma la “tirannia dell’umore del momento” difficilmente è fine a sé stessa: ha sempre comprensibili e solide radici nel tessuto sociale del paese, quindi negli interessi degli elettori, il target group di riferimento. Il che non significa che per tutti i votanti queste motivazioni siano sempre e comunque condivisibili e che comunque abbiano lo stesso peso o rivestano lo stesso interesse.
Quindi gli “umori del momento” degli elettori vanno ascoltati e compresi.
Bisogna coglierne le esigenze, le linee di tendenza, per essere in grado di fornire le “giuste” risposte tanto sostanziali quanto formali ed ottenerne in cambio il voto, ovvero raggiungere l’obiettivo: la possibilità di governare.
Ed aggiungeva Bacon che “i governi (nell’esempio, gli schieramenti o i partiti n.d.A.) che non tengono in considerazione il Tempo, difficilmente saranno dal Tempo gratificati”.

 

Definire una vera strategia di comunicazione

Ne deriva, e non solo per la comunicazione a supporto di una campagna elettorale, anche se in primo luogo per questa, la necessità di definire una strategia vera, di ampio respiro, il che significa coerenza di posizionamento – istituzionale e di prodotto - e contemporaneamente flessibilità d’azione e di proposta.
Per definirla è utile il ricorso ad un metodo di lavoro e di analisi che può essere concretizzato in una strategia generale che tenga conto di alcuni passaggi normalmente ritenuti rilevanti.
Ovviamente in quest’ambito si sta trattando in termini generali e complessivi della relazione schieramento-partito-candidato ed elettore.
Naturalmente ciascun partito ha peculiarità individuabili e spendibili e dunque può definire la propria linea d’azione traendo gli elementi strategici dal complesso sistema definito da visione, missione, relazione con gli elettori, situazione specifica e programma.
Il metodo proposto consta di sei domande:

  1. qual è il problema di base,
  2. qual è l’opportunità,
  3. quale target group,
  4. quale obiettivo,
  5. cosa può fare la comunicazione,
  6. quali strumenti utilizzare.

Qual è il problema di base?
I problemi, in termini generali, tra schieramento-partito-candidato-elettore, in verità sembrano essere concretamente più di uno:

  1. 1 - con il venire meno delle ideologie scompare il vero unico collante che per molto tempo ha tenuto saldamente uniti gli elettori ai partiti. L’ideologia ha sempre svolto la funzione di mediazione fideistica tra il rappresentante ed il rappresentato. Questa, in buona pratica, ha sovente fatto accettare anche ciò che nella sostanza non era completamente condiviso nel nome dell’astrazione metafisica;
    2 - in questo specifico momento storico lo scontro politico si è spostato e sempre più si muove dalla teoria ideologica alla fattualità del dato concreto. Ed il dato concreto tende a tagliare in modo trasversale i diversi gruppi sociali e di interesse presenti sul territorio sia negli atteggiamenti sia nei comportamenti;
    3 - si evidenzia una diffusa insoddisfazione e sfiducia nei confronti dell’istituzione partito e di conseguenza c’è perdita di credibilità e di capacità aggregativa: le sezioni dei partiti non sono più ritenute i luoghi deputati allo svolgersi  della vita politica e perdono iscritti;
    4 - l’associazionismo ed il volontariato sono in costante evoluzione: le associazioni nascono, muoiono e si rigenerano in tempi brevissimi. Laddove il segnale forte, di voglia di partecipazione, viene dalla capacità di rigenerarsi;
    5 - la relazione tra schieramento-partito ed elettore è episodica e si espleta (quasi) esclusivamente nel breve periodo della campagna elettorale. Nel lungo intervallo di tempo che corre tra una competizione e l’altra la non comunicazione tra le due parti è pressoché totale. In questo spazio temporale difficilmente l’elettore è direttamente informato e non riceve alcuna comunicazione dal partito o dai suoi eletti sulle attività in corso, salvo quanto viene trasmesso in forma mediata dai media di massa.

 

Qual è l’opportunità ?

A fronte di tanti problemi l’attuale situazione sociale presenta almeno una grossa generale opportunità.
Esiste un forte e provato desiderio di relazione one-to-one (marketing di relazione) tra chi fornisce un servizio od elabora una proposta e chi questo servizio riceve.
Chi riceve un servizio apprezza e molto, il fatto che il suo interlocutore dimostri attenzione nei suoi confronti, non soltanto nel breve momento dell’atto della vendita, ma nel tempo e continui a rivolgersi a lui con regolarità ed in modo diretto e personalizzato. C’è un grande e diffuso desiderio di informazione, di informazione specifica, mirata e personale. 
Come all’interno di ogni proposta deve essere assolutamente chiaro il “cosa c’è lì dentro per me, quanto hanno capito dei miei bisogni e delle mie necessità”, così deve essere data soddisfazione alle domande susseguenti: “stanno mantenendo quanto mi hanno promesso, come lo stanno facendo, quando ne vedrò i risultati”.
Con il venire meno del rapporto ideologico partito-(candidato)-elettore viene, di conseguenza, meno la motivazione per le posizioni astratte e sempre più forte si fa l’attenzione per il concreto che occupa il vivere quotidiano.
Dare risposta a questo diffuso e generale  desiderio-bisogno di relazione diretta e non mediata significa per il partito (il candidato) ottenere maggiore attenzione, gradimento e porre le basi per un rapporto di fedeltà. Soprattutto se la comunicazione è specifica, segmentata, concreta e non generica o teorica.

 

Quale obbiettivo?

“Ottenere più voti possibili  e  portare nelle assemblee elettive il maggior numero di rappresentanti”.  E’ evidente che più di un obiettivo si tratta di un risultato.
Più voti e più rappresentanti sono infatti il risultato di una serie di obiettivi  specifici e definiti.
Obiettivi del marketing politico possono essere ad esempio la fidelizzazione degli attuali sostenitori, l’acquisizione di consensi in nuovi segmenti di elettorato, il rafforzamento in determinate aree geografiche, ecc
Ciascuno di questi obiettivi, che peraltro possono essere perseguiti contemporaneamente, è determinato dalla storia del partito, dal suo radicamento sul territorio, dalla situazione economica e sociale dell’area di intervento, dalla composizione socio-demografica dell’elettorato, dai suoi interessi e quindi dalle questioni che per questo sono pertinenti e rilevanti.
I bisogni degli abitanti del centro storico non sono gli stessi di quelli che vivono nella periferia neppure quando si tratta del medesimo ambito tematico – traffico, orari dei servizi - così come sulla stessa problematica è possibile trovare, soprattutto oggi, convergenze anche tra persone di censo, tradizione culturale e classe sociale differente.
E’ naturale che l’obiettivo della fidelizzazione rappresenti uno degli obiettivi primari. E’ meno oneroso, in termini di convincimento e di risorse da dedicare, mantenere la relazione con un già elettore piuttosto che cercarne e convincerne uno nuovo.
Quindi segmentazione degli obiettivi sulla base delle esigenze del target di riferimento.

 

Quale target group?

Se gli obiettivi sono segmentati e segmentanti è naturale che anche il target group debba esserlo.
In prima battuta ogni partito o candidato può segmentare l’intero corpo elettorale in quattro macro categorie:
1 - gli elettori fedeli,
2 - gli ex elettori, cioè quelli che pur avendo votato il partito in passato, nella precedente tornata elettorale hanno  deciso di assegnare la loro preferenza ad altri,
3 - gli elettori degli altri partiti. In questo caso va studiata la composizione dei votanti ciascun partito concorrente,
4 - i non elettori, quelli che hanno fatto dell’astensionismo la loro bandiera.
Ma attenzione alle generalizzazioni: l’elettore, quello genericamente inteso, se mai è esistito oggi  senz’altro è di difficile reperimento.
Sempre di più l’elettore si caratterizza come unico e vuole essere definito come singolo e non come anonima parte del gruppo. Ogni elettore è in qualche misura una storia a sé.
Diventa dunque importante per il successo elettorale conoscerlo, classificarlo, capirne i desideri ed offrirgli quanto per lui è effettivamente interessante.
D’altra parte non bisogna dimenticare che la coalizione, partito, candidato sono “rappresentanti” di bisogni, atteggiamenti e istanze che emergono in prima battuta da una parte, forse la più sensibile e avveduta, della società.
Se la fidelizzazione  è l’obiettivo principale, così come avviene in qualsiasi tipo di rapporto, questa è determinata da due fattori: uno temporale, la durata della relazione, l’altro qualitativo, la soddisfazione che se ne è generata. E’ ovvio che i due fattori tendono ad influenzarsi reciprocamente.
Gli elettori possono inoltre essere segmentati anche secondo parametri sociodemografici e psicografici anche se questi non sono i soli.
Se, ad esempio, si analizza il corpo elettorale di un partito sulla base della fedeltà di voto si possono definire quattro segmenti qualitativi (tav.1):
1 - i fedeli contenti, sono quelli che sono massimamente soddisfatti della propria scelta. Stanno con quel partito da tanto tempo ne apprezzano gli interventi, ne condividono completamente le proposte.
Questi sono il vero patrimonio  del partito ma attenzione a non dormire sugli allori;
2 - i trattenuti, quelli che  per dirla con Montanelli si “turano il naso”. Non condividono ma non trovano di meglio o addirittura votano non con l’intenzione di essere a favore ma “contro gli altri”. Hanno votato  questa volta ma alla prima occasione scappano;
3 -  i giustamente infedeli , breve durata di relazione e bassa soddisfazione. Non hanno ottenuto ciò che si aspettavano. In realtà sono già persi: come si possono recuperare?
4 - i distratti la vera zona di opportunità.  Sono altamente soddisfatti ma hanno avuto breve relazione con il partito, la coalizione o il candidato.  Quindi alla prossima tornata possono cambiare voto. Come possono essere fidelizzati?
Dunque la fedeltà di voto è definita certamente  dalla sostanza della proposta presentata ma anche dalla capacità di saper instaurare un rapporto diretto, a due vie, interattivo, di domanda-risposta, tra i due interlocutori:  il partito (il candidato), da un lato, e l’elettore dall’altro.


Map 1

 

Cosa può fare la comunicazione

La comunicazione è il processo che tramite una determinata forma, definita volta per volta e mai valida in assoluto associa ad un servizio, ad un prodotto, ad una qualsiasi entità sociale, politica od economica, caratteri e  dinamiche originali, unici e vitali.
E’ un processo che costruisce relazioni.
La comunicazione in politica può fare molto se si comprende che:
1 - non rappresenta un fatto a sé stante ed isolato; quasi che nell’articolato processo partito-elettore questa giochi un ruolo sostanzialmente reificato (il contenente – la pagina pubblicitaria o lo spot televisivo – per il contenuto), con un ambito di intervento sostanzialmente limitato (che quindi sia rivolta solo verso l’esterno – l’elettorato - e che abbia poco o nessun ruolo nella gestione dell’interno del partito). Dunque un elemento folcloristico, epidermico, vagamente superfluo che debba svolgere, in buona sostanza, un ruolo tattico (raccontare all’esterno le proprie qualità presunte) ed anche episodico (se non c’è campagna elettorale non ha ragion d’essere alcuno sforzo di comunicazione). Quasi che il comunicare rappresenti l’altro, l’eccezione, rispetto al resto, il quotidiano lavoro politico.
2 - la sua funzione è di essere il collante di tutto il sistema delle relazioni.
Il partito è un’istituzione sociale-politica-economica e come tale vive di relazioni e si basa sull’interscambio delle informazioni  e queste dimostrano di essere comprese, quindi utili, nel momento in cui si trasformano in servizio per il cittadino-elettore.
Dunque la comunicazione  non può più essere ritenuta e gestita come componente altra, separata e dubitabile (forse sì forse no) della politica.
Per un semplice e certo non desiderato fatto di evoluzione della società la comunicazione è divenuta “fattore legittimante”.
Come il cittadino-elettore non è più alla ricerca di teorie ma di soluzioni pratiche che lo aiutino a vivere meglio così il partito non è più identificabile nell’astrazione ideologica ma deve essere sempre più leggibile attraverso ciò che gli sta intorno e che la comunicazione, soprattutto, gli trasferisce.
Il partito dunque è sempre meno chiamato a caratterizzarsi per l’ideologia e sempre più per forme di servizio che sono un altro modo per strutturare la relazione.
La funzionalità e l’immagine di una coalizione-partito-candidato hanno oggi e sempre più avranno in futuro,  i plus di riconoscibilità ed esclusività nel sistema di relazioni con tutti gli stackeholders: gli iscritti, gli elettori, le altre forme associative, i media, il mondo economico e finanziario. E le relazioni vivono solo attraverso la comunicazione, sono esse stesse comunicazione.
Non esiste partito senza relazione, quindi non esiste partito senza comunicazione.

 

Quali strumenti utilizzare
Non esistono a priori strumenti di comunicazione privilegiati. La scelta del mezzo è direttamente correlata agli obiettivi, alla natura del messaggio ed ai target di riferimento, laddove è ovvio che per comunicare il posizionamento istituzionale è preferibile utilizzare mezzi di comunicazione ad ampio spettro di audience.
Mentre per sostenere obiettivi mirati, rivolti a specifici gruppi di elettori è raccomandabile l’uso di tutti quei mezzi che consentono la minor dispersione possibile: mailings,  news letters, media fortemente localizzati.
Naturalmente così come nessuno farebbe revisionare la sua automobile dal bravissimo panettiere che sta dietro l’angolo, la comunicazione politica va progettata, gestita ed eventualmente “revisionata” da chi ne fa la propria professione quotidiana:

 

La relazione con l’elettore.

In sintesi, la comunicazione con l’elettore non può più essere un fatto episodico da attivare solamente durante la campagna elettorale.
L’obiettivo strategico di ogni coalizione, partito o candidato deve diventare la creazione e, soprattutto, il mantenimento della relazione con il proprio interlocutore.
La costruzione di un rapporto di relazione credibile e duraturo non si improvvisa e richiede, così come accade nella vita di tutti i giorni, tempo e dedizione. E’ solo attraverso la continuità di rapporto che si ottiene convincimento e fedeltà quindi maggior possibilità di successo.

NB:
Questo articolo è stato pubblicato nel settembre 1999 sul trimestrale Business Communications.

Il punto 5 del paragrafo dedicato a “qual è il problema di base”, così come scritto, non è più d’attualità. Attualmente la cadenza della comunicazione tra il leader-partito-elettore si è fatta decisamente più serrata.


 

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Perché amano Eliana più di Gwendolen – 2° puntata

 

Ecco, finalmente è arrivato il momento di parlare di Eliana.
E’ stata una promessa di qualche tempo fa, quando si raccontò della storia di Gwendolen.

Vibrante ed coinvolgente la storia di Gwendolen che dice di passione, di forza, di coraggio, di odio, di lame molate, di rumori sordi, di urla, di nitriti, di zoccoli battenti il fango, di legna bruciata sotto la pioggia, di fieno umido, di pellicce bagnate, di odori selvaggi, di sudore, di fatica e anche di amore e anche di sangue.

E quindi se Gwendolen è così Eliana dev’essere, per forza, diversa.

Forse delicata, forse modesta, forse debole, forse impermeabile alle passioni. Ebbene no! Eliana e Gwendolen si rassomigliano assai più di quanto un primo superficiale sguardo possa cogliere.

Certo non nel fisico: tanto Gwendolen è potente e generosa tanto Eliana è minuta e dolce. Eliana mai salterebbe sulla groppa di un cavallo afferrandone la criniera. No. Lei vi salirebbe solo se sollevata da salde e generose braccia e certo non cavalcherebbe come un maschio ma solo ben installata su una artigianale sella Pellier.

E tuttavia, tuttavia, non bastano poche modalità di forma a fare una sostanziale differenza. Eliana nasce nel 1880, figlia di artigiani: sarta la madre e falegname il padre. Povera gente, così come era povera la gente di quell’epoca che vedeva nell’abolizione della tassa sul macinato una poderosa conquista e che alcun’altra ambizione aveva che non fosse quella del mantenimento di un pulito ed onorato decoro. Abitavano nelle vicinanze di un antico monastero dove una lontana cugina di nome Cesarina aveva avuto la ventura di entrare oltre cinquant’anni prima come novizia e che ora, proprio in virtù di quella antica sottomessa e silenziosa fedeltà, aveva acquistato una piccola fetta di potere essendo diventata la responsabile della lavanderia. Come tale poteva scegliere le giovani lavoranti, lavandaie, stiratrici e cucitrici cui offrire un più che modesto salario, qualche scodella di minestra un po’ di caldo d’inverno e di fresco d’estate.


Eliana aveva frequentato con profitto la scuola del monastero ed aveva sviluppato presto il piacere della lettura e spesso, con la complicità della vecchia cugina, si era rintanata negli angoli più nascosti a divorare prima i libri di favole e poi, con il crescere, quelli che cantano le donne i cavalieri l’arme e gli amori. E quindi, nascosti in cima, sull’ultimo scaffale della biblioteca aveva scoperto i peccaminosi libri francesi che dicono di educazione sentimentale e quelli scritti col fuoco siciliano che raccontano di donne randagie dagli occhi di satanasso e dalle labbra fresche e rosse.

Come gli bruciavano tra le mani quei libri e come le si arrossavano le guance nel vedere, ché oramai la lettura si trasfigurava in visione, le carezze e gli abbracci e i baci di quegli amanti così persi nella passione. Il sentimento dell’amore era dentro di lei e cresceva e si rafforzava ogni giorno di più e la percuoteva nell’anima e nel corpo. Eliana amava l’amore.

Tanta passione le si avvampava in petto e non trovando né modo né via d’uscita poco a poco s’acquietava e come unica traccia lasciava solo un lievissimo rossore sulla fronte. Né d’altra parte sarebbe stato possibile scorgere altrove tanto turbamento poiché i suoi vestiti, ovviamente cuciti in casa dalla madre “con tanto amore”, la ingoffavano e la rendevano all’apparenza ancor più giovane di quel ch’era.

Più che vestiti erano sacchetti: chiusi al collo ed ai polsi, che scendevano dritti come fusi, senza nessuna ricercatezza, quasi fino ai piedi e sopra i quali, a mò di corazza veniva giustapposto, ogni mattina, un grembiale di tela grezza per evitare che il lavoro di mamma si sporcasse o andasse strappato.

La pettinatura era semplice e per nulla cedeva alla vanità ed alla moda: i capelli biondicci erano raccolti sulla nuca, a chignon e lasciavano completamente libero il viso magro, sempre pallido, talvolta un poco incavato, quando quel sentimento la prendeva con ancor più violenza, le labbra erano sottili eppure aggraziate e gli occhi d’un azzurro tenue sempre puntati a terra quasi a dire non guardatemi nell’anima che chissà quel che potreste scoprire..

Quando si ritenne che la sua necessità di sapere fosse stata completa e al contempo fosse anche in età da lavoro fu chiesto alla cugina di aggiungerla alle sue lavoranti. Naturalmente la richiesta fu subito accettata ed Eliana si trovò così catapultata in mezzo ad una dozzina di donne giovani, come lei del resto, che provenivano dai posti più disparati. Certo tutte erano nate ed abitavano nell’intorno: qualcuna veniva dalla campagna ed era contadina, qualche altra veniva dalla filanda e qualche altra ancora era figlia d’osti e aveva passato l’infanzia tra tavolacci umidi di vino e gente dalla parlata greve, altre infine provenivano da famiglie di venditori ambulanti. Erano sempre allegre, ridevano e scherzavano di continuo e si prendevano in giro l’un l’altra, solo quando la suora si affacciava sull’uscio, attratta dal troppo baccano chiudevano la bocca, pure se qualche risolino scivolava sempre di traverso. Eliana un po’ già le conosceva, dato il lungo tempo che aveva passato nel convento e aveva già notato che si poteva indovinare la differenza della mansione solo osservando le mani, anzi che queste parlavano da sole.

 

Le lavandaie erano ragazzone massicce dagli ampi e generosi seni, loro avevano mani grosse e spesse i cui dorsi d’inverno erano ruvidi per le profonde screpolature che l’acqua ghiaccia vi imponeva ed assumevano uno vivace colore rosso-violaceo mentre d’estate un poco si ammorbidivano ed cambiavano anche di colore accarezzate com’erano dal sole che le raggiungeva filtrato dall’acqua o quando stendevano i panni lavati sui fili tesi nel cortile. Le stiratrici avevano forti braccia che si irrobustivano ancora di più ad ogni stirata per lo sforzo di sollevare quei pesanti ferri zeppi di brace,che arrossavano e poco poco ustionavano le falangine e le falangette della mano destra che ne stavano a diretto contatto, così come la traccia di qualche bruciatura si poteva notare sulle dita della mano sinistra, urtate dal ferro nell’operazione di tendere i panni per togliere le mille grinze formate dall’asciugatura. Le mani delle rammendatrici invece erano completamente diverse: mani fini con dita lunghe ed affusolate capaci di reggere e di far svolazzare come leggere farfalle quegli aghi sottilissimi che con rapida precisione elaboravano sapienti e invisibili rammendi.

Eliana fu assegnata a questo terzo gruppo di lavoranti,poiché qualche pratica già l’aveva grazie agli insegnamenti della madre ma soprattutto fu scelta per le sue eleganti dita affusolate. Di posto fu messa vicina ad una morettina, di nome Rosa, piccola di statura e dai grandi occhi neri che, come colse subito Eliana, erano affamati di vita. Immediatamente fecero amicizia e sottovoce, tra un rammendo e l’altro o mentre cercavano nell’aguglieria l’ago più adatto alla bisogna, si raccontavano di loro:dei loro sogni, delle loro speranze e dei loro desideri.

Spesso Eliana raccontava dei libri che aveva letto o che stava leggendo e mentre raccontava la fronte le si arrossava e le mani si facevano più lente nel lavoro e gli occhi si perdevano in brughiere umide di nebbia e in prati abbagliati dal sole.
“Che bello, domani è il terzo sabato del mese” disse Rosa battendo infantilmente le mani. “E allora che succederà domani?” chiese Eliana “Eh già tu sei nuova e non conosci ancora il calendario” - riprese Rosa – “Ogni terzo venerdì del mese vengono al monastero i ciabattini. A turno siamo comandate a raccogliere tutte le calzature del convento che necessitano di una qualche riparazione e le si portano dai ciabattini “ e nel dir così Rosa strinse con struggente passione la camicia da notte della Madre Superiora cui stava attaccando un bottoncino. – I ciabattini – proseguì con voce roca, che denunciava tutto il suo turbamento – sono due fratelli gemelli Rolando e Carmine, orfani. Si dice che siano stati allevati dalle suore e poi mandati ad imparare il mestiere di ciabattino nel paese di Rocchio, quello che sta oltre le colline. Loro viaggiano sempre passano da una fattoria all’altra, da un mercato all’altro e ogni tre settimane vengono qui. Ci stanno per l’intera giornata. Riparano tutto ciò che c’è da riparare: suole, tacchi, punte, cuciture e poi a sera escono dal convento, passano la notte in una delle stanze dell’osteria e poi domani assisteranno alla messa e dopo pranzo ricominceranno il loro giro nelle cascine e nelle fattorie.”
“E come sono, come sono?”
chiese con affanno Eliana “Bellissimi – sospirò Rosa – Rolando ha occhi neri e quando mi guarda le ginocchia mi cedono” “Ehi voi due basta chiacchierare – interruppe la suora – avanti con il cucito, guardate quante camice sono ancora da rammendare. Lo sapete che durante il lavoro dovete tacere. E adesso è l’ora della recita del rosario”

E nel dir questo afferrò il pesante rosario di legno d’ulivo che stava appeso alla parete. La notte di Eliana trascorse insonne, pensava e ripensava ai due gemelli, alla descrizione che ne aveva fatta Rosa e gli occhi non volevano proprio chiudersi e le lenzuola sembravano di fuoco e il materasso irto di spini, un ignoto formicolio le correva lungo le gambe e dal ventre saliva al petto ed alla testa e da questa ridiscendeva per lo stesso percorso giù, giù fino ai piedi e di nuovo risaliva.

 

L’alba, l’alba, Eliana aspettava l’alba come un assetato che agogna la pioggia. Le labbra riarse, la fronte bollente, l’intero corpo coperto di lievissime goccioline di sudore. “Oggi toccherà a noi raccogliere le scarpe e portarle ai due ciabattini” – disse Rosa i cui occhi si facevano di momento in momento più famelici ed avidi, le sue labbra avevano il colore del fuoco e le mani di solito così ferme e precise denunciavano un leggero tremore. Il cuore di Eliana ebbe un tonfo.

Ad un cenno di suor Cesarina, Rosa ed Eliana lasciarono i loro posti nella sala del cucito e silenziose e veloci, portando ciascuna una cesta di corda intrecciata, percorsero con passo leggero i tre lati del porticato e facendo i gradini a due a due presero a salire le scale che portavano alle celle delle suore. Col cuore in gola raggiunsero il primo piano e cominciarono a raccogliere le scarpe lasciate fuori dalle celle, salirono poi al secondo e quindi al terzo piano fino a che le ceste non furono piene. Qui finalmente si calmarono e presero un poco di respiro, i loro cuori battevano all’impazzata e i loro visi erano arrossati. Rifecero il percorso al contrario e arrivate all’ultimo pianerottolo si sedettero sulle ceste e qui con muti sguardi si davano indicazioni su come rassettarsi e si passavano le dita leggere sul capo per sistemare le ciocche fuori posto e tendevano i grembiali e li stiravano con le mani e si accarezzavano il viso e si facevano aria per far evaporare i segni dell’eccitazione.

Finalmente si sentirono pronte. Si alzarono e con passo fermo, trascinando le due ceste, uscirono dal portico attraverso una porta laterale ed entrarono in un secondo cortile. Eliana seguiva Rosa come in sogno, tutto le pareva leggero, non sentiva il peso della pesante cesta di corda zeppa di scarpe e sandali,il giorno pareva luminoso come non mai e l’aria aveva un profumo nuovo, mai sentito prima. Superato il secondo cortile finalmente arrivarono là dove i due ciabattini attendevano e già erano pronti per il lavoro: i due deschetti con la parte alta incavata e suddivisa in tanti scomparti per i diversi tipi di chiodi, lo scomparto quadretto per lo spago e la palla di pece, quello lungo e stretto per gli affilati trincetti le cui estremità brillavano allegre al sole e quindi lo spazio per le lesine e i punteruoli dalle punte ricurve e il martello con la testa piatta e appoggiato a terra accanto ad ogni deschetto il piede di ferro a tre lati su cui calava con forza il martello per dare forma alla scarpa. I due ragazzi stavano parlando sottovoce tra loro quando le videro entrare nel cortiletto. Subito si alzarono in piedi e dopo un brevissimo attimo di esitazione si tolsero i berrettacci che portavano in capo e si avviarono incontro alle due ragazze.

(continua)

 

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INDOVINATE CHI E' ISACHE?

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I vincitori godranno della soddisfazione di avere indovinato. 

Il vostro nome-nik-pseudonimo sarà citato nell'albo degli indovinatori.

 

 

I gatti nel regno di Isache

 

Si narra che “nel mondo che c’è” si trovi un antico regno, oramai ridotto a poca cosa come estensione territoriale ma ancora assai potente ed influente.

E’ un regno molto antico la cui nascita risale a migliaia e migliaia di anni fa. Pochi all’epoca della sua fondazione avrebbero scommesso sulla durata di Isache, questo è il nome del regno, che si presentò sul proscenio della storia con scarsissime ambizioni materiali e di fortissime nell’ambito dello spirito. Il regno si fondava su poche regole e tutte di grandissima nobiltà, una per tutte: “avete sentito che è stato detto di amare il tuo prossimo e odiare il tuo nemico. Ma io dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano.”
Come scrive Temato (5:44), uno dei quattro estensori dei libri sacri su cui si fonda il regno di Isache.

Era quella, come tutte le altre che ne formavano il corpus ideologico, una regola assolutamente innovativa, anzi rivoluzionaria, per il tempo in cui veniva dichiarata. Così rivoluzionaria che il regno cominciò, quasi senza parere, ad attrarre genti da ogni dove e ad ingrandirsi fino ad annettere , ancora una volta senza parere, territori sempre più vasti senza dover condurre guerra alcuna. Ma con l’allargarsi della popolazione e della sfera di influenza i reggitori del regno, che erano eletti in modo democratico, ancorché da pochi, anche questa cosa assolutamente nuova per i canoni dell’epoca, cominciarono a coltivare l’idea che fosse necessaria una gerarchia e poi qualche ritocco nell’applicazione delle regole e poi un esercito e poi che le conquiste fino a quel momento fatte solo con le armi della critica dovessero finalmente fondarsi sulla critica delle armi.

Così il regno di Isache divenne uguale in tutto e per tutto agli altri regni suoi confinanti. Anzi si applicò così tanto e così bene all’obiettivo di diventare un regno normale che mosse guerre sanguinose, saccheggiò, bruciò, torturò, deportò, confinò. Arrivò addirittura a negare le leggi più evidenti della pariteticità dell’uomo: se non si aderiva formalmente (che oramai di sostanza ne era rimasta assai poca) all’ideologia professata da Isache si era considerati esseri di livello inferiore. Quasi un gradino sotto l’uomo. Chi si rifaceva ai principi originari fu guardato con sospetto e combattuto con asprezza, anche fino alla morte.

Si diede spazio ed incoraggiamento alla costituzione di veri e propri corpi speciali come i “cani del signore” per combattere ogni forma di non conformismo. Furono negate le leggi delle scienze: le scoperte in ambito astrofisica anziché essere vanto di progresso divennero pericoloso esercizio. Il regno di Isache fece lega con i più retrivi, cui forniva costantemente l’alibi dell’ideologia.. Arrivò a negare l’evidenza ed usò le segrete come strumento di cultura. E chi bruno scrisse de la causa fu torturato e poi bruciato come chi tentò di suonare la piccola campana della città del sole dopo immonde pressioni dovette fingersi pazzo per avere salvala vita.

 

Intere biblioteche vennero bruciate e saccheggiate ed anche i gatti, quelli neri, per un certo periodo passarono non pochi guai.

Fino a ieri il regno di Isache era retto da Gipi II che lo ha governato per molti decenni con decisione e mano ferma.

L’epoca di Gipi II finita pochi anni or sono, si può dividere in tre fasi. E qui si è quasi nella cronaca.

La prima fase, quando Gipi II era ancora giovane e pieno d’energia, è stata caratterizzata dal suo correre in lungo ed in largo per i territori in cui un tempo i suoi predecessori erano padroni assoluti. Il suo atteggiamento era duro, richiamava costantemente all’ordine e avva l’ambizione di di presentarsi come il padre giusto ma severo. Più severo che giusto. Determinato nell’indicare la strada, disposto a sorreggere i sudditi che voleva fedeli ed ubbidienti ma al tempo stesso pronto a punirli con veemenza. La seconda fase, assai più breve della prima, sembrava essere di segno assai diverso. Forse sentendo prossima la fine il vecchio Gipi II cominciò a riconsiderare, con ambizione, tutta la storia del regno e con grande stupore dei più iniziò un altro giro per i territori non più per ammonire ma per chiedere perdono.

Chiese perdono a tutti coloro che il regno nelle sue diverse epoche aveva offeso e trattato con disprezzo, chiese perdono a chi a chi era stato segregato nei ghetti, chiese perdono a chi era stato condannato per aver pensato in modo, anche di poco, diverso. Chiese perdono a chi fu rubata la terra, la tradizione, la cultura, la dignità.

Chiese perdono a tutti financo a chi aveva osato giocare con l’astrofisica anche se oramai era assolutamente assodato che avesse ragione. Ma fece anche di più: decise di porsi sullo stesso livello di tutti gli altri e di non vantare primati. E si disse disponibile a discutere con tutti su tutto. Sembrava quasi un ritorno alle origini. Un lento ritorno chè i millenni non si cancellano a clpi di desideri e di pie intenzioni. Poi la terza fase, questa non più fatta solo in prima persona ma anche di sponda, facendo muovere le truppe scelte, quei “cani del signore”, che tanto latrarono e azzannarono. Ed ecco che nel giro di poche settimane accadde ciò che poco prima sembrava impensabile.. E cadde la maschera.

In prima battuta fu nobilitato un suo predecessore tale Opi IX che si era caratterizzato per le sue posizioni retrive, la capacità di dividere e l’arroganza e la cattiveria con cui aveva trattato gli abitanti del ghetto. Poi uno tra i più prestigiosi fra i suoi “cani del signore” ribadì il principio che il regno di Isache era il perfetto, il solo, l’unico.

 

E che fuori di quello non c’è altro se non il vuoto. Infine consentì che un altro dei suoi “cani del signore” ribadisse con protervia il concetto portandolo dalla teoria alla pratica: l’ospitalità deve essere concessa solo a coloro che dichiaratamente dicono di appartenere al regno. La diversità è negata. Gli altri, ancora una volta sono ad un gradino inferiore. Forse neppure uomini. Come peraltro era accaduto quando “cani del signore” avevano accompagnato i conquistatori nelle nuove terre e quando avevano penosamente taciuto sulla barbarie che distribuiva stelle di vario colore e poi trasformava l’uomo in fumo. E così il regno di Isache è tornato a mostrare il suo vero volto quello che per millenni ha mostrato. Arroganza, prevaricazione, protervia, intolleranza, violenza.

Forse questa volta i gatti, quelli neri, si salveranno. Ma non è detto.

 

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Chi è Isache? Chi sono i
“cani del signore”
Chi è
Tomate?
Chi è Opi IX Chi è GiPi II Chi è il
I° filosofo
Chi è il
II° filosofo
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La sigaretta.

 

 

E’ accesa e se ne sta lì, sola, a consumarsi. Si consuma, da sola, a prescindere da qualsiasi altro intervento o da qualsiasi altro fatto gli succeda tutt’intorno. A prescindere. Tutto sta in quel “a prescindere”.

Per il sigaro toscano non è la stessa cosa. Il toscano ha bisogno di essere agito dal suo padrone: se non gli si presta la dovuta attenzione, con regolarità, lui, il sigaro, dopo poco, si spegne. Lui non si brucia da solo lui non si butta via,. Lui, il sigaro toscano, vuole stare al centro dell’attenzione o quanto meno in compagnia, ha un rapporto paritario con chi l’ha acceso e sembra dire “o giochiamo insieme, godendo l’uno dell’altro, o non ci sto e mi spengo.”

Eh già perché il godimento richiede attenzione, cura e, in sintesi, partecipazione.

 

Lei, invece, la sigaretta no: per consumarsi non ha bisogno di nulla, le basta la breve fiammata dell’avvio ed una sola boccata, dopo di che fa da sola. Si brucia da sola. Finisce da sola. A prescindere, per l’appunto, dal dove e dal come e dal con chi. Sola anche se in compagnia. Solitaria. C’è dell’onanismo in quel suo banale consumarsi sui bordi dei bigliardi o negli angoli di sgangherati tavolini coperti di panno verde o appoggiata su un davanzale: dimenticata perché l’attenzione è altrove. A prescindere.

Sarà quel suo essere così leggera, così levigata, così lavorata, così sofisticata, così fredda e, alla fine, così poco genuina.

Il fatto è che si tratta di un miscuglio: di tabacco e di carta e di catrame e anche di spezie e anche di aromi e anche di chissà che altro. Non come il toscano che è fatto di solo rude tabacco trinciato. E poi la sigaretta se va in giro con il filtro.

Quel filtro che, pur standole attaccato rivendica il suo essere altro. Lo rimarca con decisione il confine che li unisce, con quel volgare e butterato colore che urla: lì finisce lei e qui comincio io.

 

Perché una parte mezzana tra lei e la bocca?

E, come non bastasse, il filtro esalta costantemente, con il solo esserci, il suo ruolo privativo: io tolgo e per questo lei è più buona.

Pensa la dicotomia: togliere per rendere migliore.

Eh già il filtro toglie la parte cattiva, ma se c’è del cattivo dov’è il buono?

Il filtro ovvero la reificazione dell’ipocrisia. E allora lei, la sigaretta, indifesa, si consuma lasciando a ricordo solo un po’ di cenere talvolta in scaglie talaltra in piccoli compatti rotolini.

E lui, il filtro, non brucia.

Sigarette consumate. Vite consumate. A prescindere.

 

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Le corna

 

 

Le corna: tipico gesto italico dal non univoco significato, se si soppesa la questione si scopre che anch’essa è cornuta.

E questo già dalla forma: indice e mignolo tesi verso l’esterno, a saluto romano, mentre pollice medio e anulare scompaiono vergognosi nel palmo della mano, quasi a dire “noi non c’entriamo”.

Poi c’è il fatto della gestualità: questa definisce il senso. L’apparire definisce l’essere. Già perchè la postura della mano, del braccio e, alla fine, del corpo muta col mutare del senso sotteso all’atto.

Non tutte le corna sono uguali, esiste la fenomenologia delle corna. La pratica dice di almeno due categorie: quelle a difesa e quelle ad offesa. E la distinzione non sta solamente nel fine dell’atto ma anche nella definizione del contesto, nel tono della movenza e financo nella postura.

Le corna a difesa prevedono corpo lievemente curvo, spalle cadenti, braccio arcuato e mano vicina ai genitali o al massimo ad alzo zero, puntate cioè verso il cuore o gli occhi dell’avversario. Di norma vengono elaborate quando il cornificatore è fatto oggetto di anatemi evocanti immediate e sconce sciagure.

Quelle invece ad offesa, che dicono di tradimenti, di profanazioni e maligne alludono a incapacità ed impotenze, godono di altra postura: sono gagliardamente, ferocemente, sfacciatamente lanciate verso il cielo, corpo dritto, quasi in punta di piedi, braccio teso. Travalicano il bersaglio, ambiscono alla notorietà massima. Tutti devono sapere che il cornuto è tale.

E non si deve dimenticare lo sguardo.

 

Lo sguardo nella esibizione delle corna è fondamentale e questo – così vuole la tradizione e dunque la storia – ha da essere parte integrante dell’atto,che in qualche modo avvolge ed enfatizza. Nell’azione a difesa lo sguardo attinge all’ibrida mistura del preoccupato-rassegnato, si ricordino le espressioni di Totò e quelle, ancor più comiche di un antico presidente della repubblica specializzato in ogni tipologia di corna che, abbondantemente riprese dalla stampa sia nazionale sia estera, raccontavano di uno sguardo tragicamente spiritato e per ciò stesso voglioso di infinite divine (cornute) protezioni.

 

Di tutt’altra specie è invece quello ad offesa, anch’esso sguardo bastardo poiché ha da essere aggressivo e allo stesso tempo irridente. E questo connubio non è facile. Solo dall’unione incestuosa dei due opposti si può scatenare la potenza devastante che quelle due ditina, così lontane tra loro eppure così connesse, possono mettere in campo.

Dicotomia bizzarra questa delle corna che rivive peraltro, come quasi sempre accade, anche in natura. Tanti animali sono portatori di corna, e dalle forme le più strane, ma due sono molto simili tra loro per forma e struttura: il toro e il bue. Il primo simbolo di virilità e selvaggia potenza, protagonista (obtorto collo) di tragici miti e di cruente corride, a lui fanno riferimento sia il padre del “bell’Antonio” che lo sfortunato protagonista di “Fiesta” mentre l’altro, mite e generoso è simbolo di forza buona e tranquilla tanto da meritare l’appellativo (involontariamente ironico) di “pio” e prima ancora spazio anche nell’iconografia del presepe accanto all’asino, simbolo di sapienza, e Maria, che invece rappresenta la bellezza. E in così opulenta compagnia anche le corna si nobilitano.

 

PS. Le corna di secondo tipo, se vere, sono così forti da non essere scalfite neppure dal denaro. Questo, come noto e tragicamente visto nei secoli, può comprare uomini e donne, rinfoltire capigliature, far ottenere magniloquenti titoli 8anch accademici) magari allungare gambette che voglie irridenti hanno fatto troppo corte ma con le corna non ha alcuna possibilità di successo. Quando quelle sono conficcate nel ancorché angusto spazio della fronte lì stanno e lì restano.

 

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La macchina fotografica digitale – una recensione

 

 

Se è vero che gli oggetti sono la solidificazione dei sentimenti di un’epoca la macchina fotografica digitale rappresenta alcuni degli aspetti meno piacevoli dei nostri tempi.

L’algida macchinetta, la gran parte dei modelli ha la carenatura di simil acciaio argenteo, è, ancor prima che mezzo di riproduzione della realtà, strumento a-sensoriale, a-emotivo, a-coinvolgente, privatizzante della e nella relazione con chi, la gestisce.

L’occhio dell’uomo non poggia sul mirino, non guarda in presa diretta, non mette in movimento il resto del corpo, tendendo nervi e muscoli alla ricerca dell’inquadratura e le dita della mano sinistra non poggiano, delicate, sull’obiettivo per poi spostarsi sulla ghiera e farla ruotare lentamente per procedere alla messa a fuoco, il tempo dell’esposizione non viene scelto controllando la luminosità dell’ambiente circostante e prima dello scatto non ci si accerta che il gomito sia ben fissato al fianco e che il respiro sia regolare e tranquillo.

E poi, a scatto avvenuto, non c’è neppure quel lieve batticuore che discende dal dubbio di aver ben lavorato.

 

E quell’ansia tipica, che s’è già provata nell’attesa dell’esposizione dei quadri dopo l’esame di maturità, mentre in piedi, con le mani tamburellanti sul bancone del laboratorio di sviluppo, si attende che il commesso cerchi tra le tante buste quella propria e gli si scruta il volto per coglierne il segno dell’approvazione o della bocciatura e quindi la trepidazione nello spillare le foto, una a una, quasi a riprodurre la sofferenza del giocatore di poker.

 

Ecco quell’ansia con la macchina digitale non c’è.

Tutto il pathos dell’essere viene annullato dalla semplicità del digitale: sono le sole mani, a braccia tese, a pilotare l’apparecchio mentre gli occhi sfiorano un piccolo schermo che mostra subito il risultato già bello e definito e la digitale non solo mette a fuoco ma sceglie in completa autonomia ogni parametro e se quel che si vede non piace c’è solo da cancellare lo scatto e poi ripeterlo.

D’altra parte non può esserci fusione tra uomo e mezzo se si vive di non emotività, non coinvolgimento, non candore, non calore, non passione, non rischio, delega cieca alla tecnologia, aspettativa di risultato definito, asservito, controllato, comunque correggibile e sicuro. Quasi sicuro.

 

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Perché amano Eliana più di Gwendolen? |01

 

Eliana, Eliana, Eliana, Eliana, Eliana.

 

Ebbene sì Eliana, sta diventando l’incubo di Gwendolen. Eppure se c’è un nome esotico tra i due questo è certamente quello di Gwendolen. Nome glorioso quello di Gwendolen portato agli onori della storia della Cornovaglia ma non solo, dell’intera Gran Bretagna e più ancora del mondo tutto.. Eppure il nome di Eliana sembra piacere di più.

 

Quella di Gwendolen è storia antichissima e fatta di altrettanti ferocissimi dolori e tenerissime gioie.

Amava Gwendolen, ahimè non riamata.

 

Nacque principessa in Cornovaglia intorno al 1130 prima di Cristo figlia di un re valoroso e di forte tempra, coriaceo, come dovevano essere i re di allora e di nome faceva Corineo.

Figlia ubbidiente, fedele e sottomessa al padre, accettò, all’inizio pur contro voglia, di sposare uno slavato e biondastro re britannico: Locrino.

 

Tuttavia l’indole leale ed appassionata la portò, giorno dopo giorno ad accettare lo sposo e le sue distratte carezze fino ad innamorarsene. E quando l’amore fu nacque l’adorato figlio Maddan.

Maddan da subito si presentò come forte virgulto della sua specie e seppe resistere a tutte le difficoltà che quel periodo aspro e spigoloso, eppure così tenero e terso, imponeva ai selvaggi cuccioli dell’uomo: solo i più forti nel fisico e nello spirito potevano resistere. E Maddan resistette.

 

Ma si può resistere all’abbandono del padre?

E può una moglie, soprattutto quando anche madre, rinunciare a ciò che le appartiene di diritto?

No. La risposta è semplicemente no. No. Non può.

 

E allora eccola ritornare nelle terre paterne raccontare con veemenza e sobrietà dei torti subiti e organizzare all’unisono prima le schiere dei fedeli e rudi guerrieri di Cornovaglia e poi dei Gallesi tutti. Sia guerra al fedifrago Locrinpo ed alla sua concubina la teutone Estrildis.

Che pena odiare l’amato. Che disperazione calpestare rabbiosamente le terre appartenute con gli zoccoli dei focosi cavalli e vedere i fanti strappare i frutti dagli alberi e disprezzare quella terra tanto patita.

Eppure il torto non può essere superato. Fosse stato solo per lei forse, forse, avrebbe potuto, in qualche modo, perdonare ma ora si tratta di ben altro. Ora è in gioco la continuità del sangue di Corineo e dell’intero Galles.

Troppi mesi sono passati dal ritorno in Cornovaglia e troppe sono le lacrime mischiate alla pioggia che con questa hanno reso molle e fangosa la terra. Ogni momento di titubanza è cancellato dalla veemenza del mare che dalla punta estrema della Cornovaglia spingono Gwendolen e la sua gente verso oriente la dove siede con la sua concubina il re traditore.

 

Le schiere di Gwendolen iniziarono il loro viaggio verso l’Inghilterra e con mosse a scacchiera cercarono di obbligare Locrino alla battaglia ma l’astuto inglese temporeggiava, si mostrava e si ritirava e con questa tattica invitava subdolamente gli uomini di Cornovaglia ad addentrarsi sempre più nelle regioni nemiche.

Il piano di Locrino era evidente e presentava due soluzioni.

La prima: le schiere di Gwendolen entrando sempre più nel territorio del nemico si sarebbero trovatre isolate e costrette ad avanzare, e forse combattere, in terreni sconosciuti e saenza alcun appoggio esterno.

Seconda soluzione: stanchi dal tanto vano inseguire sarebbero ritornati, magari anche decimati, da brevi e sanguinosi scontri di guerriglia nelle loro terre. E forse, alla fine, si sarebbe pure potuto dare il colpo di grazia pensava Locrino, in questo istigato dalla perfida Estrildis il cui largo bacino non pareva essere in grado di generare quel figlio che il re tanto agognava.

 

Tuttavia Gwendolen non desistette e continuò con la tenacia nella sua tattica: “ L’Inghilterra è un’isola – diceva ai capi delle sue tribù - e alla fine ogni fuga si infrange contro le onde del mare. Anche Locrino non potrà indietreggiare all’infinito. E poi – aggiungeva – i nostri uomini stanno inseguendo quegli altri stanno scappando

 

La forte Gwendolen aveva capito che per un guerriero essere anche cacciatore è un grande vantaggio. Certo la vita non è comoda quando si insegue un cervo, è l’animale che sceglie il terreno e l’andatura ma l’obiettivo è chiaro e cancella ogni fatica. Quando invece il guerriero è preda e fugge combatte due volte: la prima contro la sua stessa voglia di affrontare lo scontro e mostrarsi per ciò che si è: un combattente.

E questo atteggiamento demoralizza e deprime e rende flaccido il cervello e certo non bastano i turgidi seni della bionda teutone a dare vigore e cambiare di nome a ciò che a tutti appare per quello che è: una fuga. E poi il continuo movimento porta la guerra là dove mai avrebbe dovuto essere e anche questo non aiuta poiché il popolo pensa certamente a difendersi dagli invasori ma al tempo stesso maledice colui che ce li ha portati. Alla fine, quando oramai tutta l’Inghilterra è stata corsa in lungo e in largo e, come Gwendolen aveva previsto, il mare si para dinanzi ai fuggitivi non c’è che da affrontare la battaglia.

 

Ed eccole, finalmente, le due schiere l’una di fronte all’altra ma mentre quella degli uomini di Cornavaglia ha nel cuore la feroce gioia di chi ha finalmente intrappolato la preda e potrà tra breve raccogliere il frutto di tanta fatica per gli altri il fatto è di gran lunga diverso. Gli inglesi sono stanchi dal tanto correre le membra sono fiacche e, soprattutto, si sentono in trappola. Troppo è stato il tempo speso a fuggire che oramai la fuga è diventato quasi il loro abito mentale e poi quella odiosa sensazione di non essere più loro a menare la danza ma l’essere costretti da altri a compiere un atto, fosse anche quello di combattere, è umiliante. E tutti sanno che chi parte umiliato, da sé più che dall’altro, ha già perso.

 

Gwendolen sorride stando sul suo cavallo sauro avvolta nella ricca pelle d’orso bruno mentre la pioggia cade silenziosa e sottile, quasi a non disturbare i contendenti, e rende i suoi lunghi capelli bruni più lucenti che mai.

Così la deve vedere Locrino: in tutto il suo splendore, mentre con la destra alza la spada temperata dalle tante lacrime d dal fuoco della passione. E così lui la vede.

Locrino, che per un attimo ha un soprassalto e ammira quella donna che fu sua e di cui godette l’amore.

Ed ecco Gwendolen che fa forza sulle staffe quasi ed alzarsi quasi in piedi e roteando la spada indica il centro dello schieramento avversario: i fantri si lanciano all’assalto con urla selvagge tanto è selvaggia la gioia della battaglia e selvaggia è la voglia di sangue.

 

L’esercito di Locrino si spacca in due pensa ancora una volta, l’inglese, di poter attirare in una trappola ed ingabbiare la furia di Cornovaglia.

Ma si sbaglia.

 

Gwendolen da ordine di suonare i due grandi corni di bue muschiato ed ecco apparire la cavalleria che, divisa in due tronchi, si abbatte sulle ali avversarie.

La battaglia ora è finalmente vera.

Non c’è più spazio di fuga.

Non c’è più spazio di manovra.

Non c’è più spazio per la tattica.

 

Le scuri si abbattono sugli scudi che con sinistro rumore si spezzano. Le fronti sono aperte quasi siano mele. I cuori sono spaccati. Dalle labbra escono fiotti di liquido color granata.

 

Eccola Gwendolen spronare il suo cavallo e batterlo sul posteriore con la parte piatta della spada perché non indietreggi dinnanzi a nulla e anche lei si getta nella foga della battaglie e mena fendenti ora a destra ora a sinistra e sente il sordo rumore dell’osso che si spezza e gode nel sentire il suo volto colpito da quella materia calda e rossa che le scivola sulle guance. Sangue. Sangue. Con questo si lava l’onta subita.

Ed ecco Locrino e la sua concubina.

Lui la protegge e si batte come forse mai si sarebbe immaginato e questo suo nuovo modo d’essere da un canto lo rivaluta e dall’altro renderà pari la lotta. Gwendolen con un secco gesto si libera della pelle d’orso, i suo bracciali brillano sotto la pioggia, la tunica bagnata le si incolla sul petto, un urlo le esce dal profondo: “Lasciateli. Sono miei”

 

Locrino si smarrisce, poi, sentendosi non più circondato da gallesi ghigna, arpiona la criniera di un cavallo e salta in groppa. Per un attimo i due si guardano negli occhi poi, allo stesso momento spronano e si lanciano l’uno contro l’altra. Il rumore degli zoccoli sull’erba bagnata è sordo e spaventoso, la battaglia si ferma. Ognuno guarda il suo campione.

 

Il tempo scorre lento, gli zoccoli colpiscono il terreno e stanno per tempo infinito a mezz’aria prima di ritornare a battere e il silenzio si fa fragoroso e gli zoccoli tornano a terra e si rialzano e le bocche sono spalancate e l’urlo è di silenzio. Lo spazio si fa sempre più corto. Prima l’occhio coglieva l’intera figura ora sempre meno appare di quella massa che vien contro. E il braccio si sposta all’indietro a cercare la spinta e raggiunge il è punto dove deve essere fermo. Oramai si è vicini, Tre tempi di galoppo. Due tempi. Ancora una battuta e poi l’omero ruota e scatta la molla. Ora il braccio finisce la sua rotazione, il gomito è sotto il mento e poi finalmente ricade lungo la coscia. La spada si fa pesante. La mano sinistra tira a se le redini e con il tallone destro fa ruotare il cavallo a sinistra mentre il busto già si è torto per vedere il nemico. E gli occhi più veloci del fulmine hanno visto un pezzo schizzar via. Forse il fango sollevato dai posteriori. Quant’era grande e tondo e brillante quel fango.

Non è fango: è l’elmo di Locrino, con dentro la sua testa. Il suo cavallo sta correndo con sulla groppa un corpo mozzo.

Il destino volle che quella tonda macraba palla rotolasse fino ai piedi di Estrildis.

E così Gwendolen vinse la sua guerra nei pressi del fiume Stour.

 

Gwendolen fu una regina saggia, governò per circa 15 anni sull’intera Inghilterra e quando il figlio Maddan fu in gradoi di raccogliere l’eredità del padre abdicò e se tornò in Cornovaglia dove visse ancora a lungo e poi, come succede a tutti morì. E come succede ad alcuni lo fece serenamente.

Dimenticavo Estrildis.

Fu fatta annegare, insieme alla figlia avuta da Locrino, che di nome faceva Habren.

E poiché Gwendolen era una inguaribile romantica ordinò che il fiune nel quale le due furono annegate si chiamasse Habren. Che poi in inglese divenne Severn.

 

E di Eliana?

Bhè di Eliana parlerò la prossima volta.

 

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Perché Gwendalen vibra quando sente quel nome?

 

Già perché Gwendalen si sente vibrare dal profondo quando sente pronunciare e lei stessa pronuncia quel fatidico nome?

 

Le sue rosse labbra carnose hanno un fremito impercettibile mentre si schiudono per dar corpo, con voluttà, a ogni singola sillaba di quel nome. E mentre lo dice il suo corpetto ha un lieve sobbalzo verso l’alto, il respiro si fa lento e profondo, le lunghe ciglia si chiudono e si riaprono con placida lentezza e la guantata mano sale piano piano fino ad accarezzare con delicatezza il lungo tornito collo.

 

Già ma perché tutto questo pathos? In fondo solo incontri tra tra una donna ed una parola.

 

Gwendalen ce lo spiega e lo fa, con tutta quella semplicità e con quel mirabile tocco di innocente malizia che solo le brave ragazze di buona famiglia sanno dimostrare. Quel nome, dice, la fa vibrare perché possiede una musica tutta sua. E la musica, si sa, produce vibrazioni. Quelle vibrazioni che poco o nulla hanno di razionale e che, per opposto, poggiano sull’emotività. Su quella parte del cervello che è più nascosta e profonda, quella che gestisce le fondamentali linee che tratteggiano e definiscono il perimetro del bene e del male.

 

Un’area complessa nella quale sono affastellati, con apparente disordine, ma in realtà ordinatissimi alla bisogna, tutti i concetti (che poi sono i valori) definiti di volta in volta come positivi e come negativi che, il contesto di nascita e di sviluppo e di educazione ha, con forza estrema, inchiavardato nella mente di ciascuno.

 

Quei concetti, valori, per essere scambiati e con-divisi con la comunità dei pari hanno la necessità di essere facilmente individuati, in modo univoco e senza tema di confusione. E per questo, la comunità ha inventato i nomi e in contemporanea, forse pure senza saperlo l’etimologia. E guarda caso etimo (che deriva dal greco étymo) vuol dire “intimo significato della parola”.

 

Ebbene qual è la parola che tanto entusiasma e coinvolge Gwendalen? Semplice: Ernest.

 

E come vibra Ernest, che in inglese significa sincero (scritto earnst) così ogni altra parola ha le sue vibrazioni che però non sono assolute e, come sempre, vanno contestualizzate.

 

Ovvio che comunque la gran parte delle parole poggi su un tratto coinemico (comune e dunque condiviso).

 

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Per maggiori informazioni scrivete a: info@partners.it

L'importanza di chiamarsi Partners. | 01

 

Qualche anno fà apparve sugli schermi un divertente film dal titolo “L’importanza di chiamarsi Ernest”,*, la trasposizione cinematografica di una deliziosa commedia di Oscar Wilde, ambientata in epoca vittoriana. Si tratta, in sintesi, di una piece degli equivoci che ruota intorno ad uno scambio di nome. Il trentacinquenne Signor Worthing vive una doppia vita: in campagna, si chiama Jack, ed è il (quasi) severo tutore della diciottenne Cecile, mentre in città dove spasima, ricambiato, per la bella Gwendolen si chiama Ernest. L’ideale di Gwendolen, si scoprirà presto, è sempre stato quello di amare qualcuno che si chiamasse Ernest.

 

“Noi viviamo – dice Gwendolen – come voi ben sapete, Signore, in un’epoca di ideali e il mio ideale è sempre stato quello di amare qualcuno che si chiamasse ….Ernest .

 

C’è qualcosa in questo nome che ispira un’assoluta fiducia … dal primo momento che mio cugino Algy mi ha detto di avere un amico di nome Ernest ho capito che ero destinata ad amarvi”.

 

Questa dichiarazione coglie il giovane Jack-Ernest di sorpresa. Da un lato è felice di sapersi amato dalla ragazza e però, allo stesso tempo, capisce di essere in una situazione imbarazzante: non si chiama Ernest ma Jack.

“Non mi dirai che non potresti amarmi si io non mi chiamassi Ernest” - sonda il terreno Jack-Ernest

“Ma tu ti chiami Ernest” ribatte sicura Gwendolen che aggiunge “il nome Ernest ti sta alla perfezione, è divino. Come nome … ha una musica tutta sua e …produce delle vibrazioni…”

“Ma Gwendolen, ci sono tantissimi nomi molto più belli – la interrompe Jak-Ernest che inizia chiaramente a vedere quanto la situazione si stia ingarbugliando e soprattutto che la soluzione sia tuttt’altro che scontatapenso che, per esempio, Jack sia incantevole ….”

“Ho conosciuto diversi Jack – ribatte la ragazza ridacchiando – e tutti erano, senza eccezioni più banali della media. …

E’ un nome davvero affidabile Ernest”

Ed Ernest è davvero un nome affidabile poiché in inglese Earnest significa sincero.

 

Già, la questione del nome.

Anche in ambito commerciale il nome ha grande importanza. Il nome di un prodotto, così come quello di un’azienda, adempie ad una funzione fondamentale nell’intera operazione commerciale. Il brand, per assolvere compiutamente al suo compito, deve essere consistente sia con l’essenza sdel prodotto sia con il target degli acquirenti-consumatori.

Alcuni esempi di consistenza con i prodotti: per un dentifricio può essere rilevante avere il suffisso “dent” (Mentadent, Pepsodent …), per un detersivo per piatti la velocità con cui sgrassa può essere fondamentale (Svelto), così come per un prodotto finanziario come un fondo di investimento comunicare l’ampia gamma di settori nei quali è attivo può essere veramente la chiave vincente (Arca).

 

Se si guarda la questione dal punto di vista dei consumatori: il brand deve, da un punto di vista razionale, essere esplicativo della funzionalità del prodotto mentre dal punto di vista emotivo deve essere coinvolgente, esprimere fiducia e, come dice Gwendolen, deve produrre delle … vibrazioni.

 

Quelle vibrazioni che, in modo biunivoco, aiuteranno i consumatori ed il prodotto ad entrare prima in sintonia e poi in relazione. Saranno quelle vibrazioni a determinare il successo del prodotto.

Il nome, si diceva,deve essere consistente con il prodotto ed il sentire dei consumatori, quindi le valenze che gli sono proprie possono devono trasferirsi sul prodotto e da questo al consumatore.

 

Partners è un nome che parla, etimologicamente, di fiducia e che dice di partecipazione, di condivisione, di stare insieme, di vita di coppia (si vedano i box successivi).

 

Chi potrebbe utilizzare quindi questo nome?

Qualsiasi azienda e/o prodotto che possa-voglia veicolare questi valori: un’assicurazione per esempio ma, evidente in tutt’altro settore merceologico, anche un profilattico o, perché no?, una linea di elettrodomestici o in sito di relazioni. Il punto rilevante nella scelta del nome, in verità, non sta tanto nel prodotto e/o nella categoria merceologica cui questo appartiene quanto piuttosto nella scelta dei valori – funzionali od emotivi – che si vogliono comunicare. Anche il nome di un dominio internet risponde a questa logica.

 

Un dominio è, a tutti gli effetti, un prodotto che deve avere un nome oltre che funzioni specifiche.

Più un nome è facile, memorabile e più produce …vibrazioni più sarà ricordato, ricercato e visitato. Il che significa aumentare esponenzialmente le opportunità di fidelizzare i propri consumatori.

 

E’ tuttavia da segnalare, relativamente alla questione del naming, una differenza strutturale tra prodotti e domini.

Nel primo caso lo stesso nome può appartenere a più prodotti, operanti, ovviamente, in differenti categorie merceologiche, mentre il nome di un dominio è unico ed assoluto: può appartenere solo ed esclusivamente ad uno.

 

Fiesta è un bel nome: dice di festa, di felicità, di gioia e infatti questo brand appartiene a:

  1. una merendina di Ferrero
  2. un’automobile di Ford
  3. è anche il titolo di un famosissimo libro di Ernest (cosa vuol dire il caso) Hemingway
  4. una società statunitense che produce giocattoli
  5. un festival che si tiene a San Antonio – Texas – per commemorare gli eroi di Alamo
  6. un festival latino americano che si svolge a Roma
  7. un sito internet, che peraltro è quello del festival di Roma

Digitando fiesta sul principale motore di ricerca – Google - al primo posto appare il dominio del festival di musica sudamericana. Meraviglioso esempio di coerenza tra prodotto e web. Per il festival latino americano, naturalmente.

 

C’è anche il caso della parola polo, che è:

  1. uno sport che si pratica a cavallo
  2. un tipo di maglietta
  3. una marca di caramelle, che avevano come haed line “la menta con il buco intorno”
  4. il brand di un’automobile di Volswagen
  5. un sito internet

Se su Google si digita “polo” al primo posto appare Ralf Lauren, che non ha neanche un prodotto (pare) con questo marchio (anche se produce magliette) poi appaiono tantissimi riferimenti all’auto e ad altro ancora mentre se si digita www.polo.it (magari per cercare l’auto) appare il sito di una società informatica.

 

Con Google il sito www.polo.it appare solo nella quinta pagina.

Situazione certo bizzarra di cui si parlerà in una prossima occasione.

 

Un nome è un elemento identificativo, più è facile da ricordare e coerente con il mix prodotto-consumatore meglio lavora. Dopodiché per ottenere il massimo della performance da questo ingrediente sarà necessario lavorare anche su altri items che si analizzeranno in un prossimo intervento.

D’altra parte ricette miracolistiche o ingredienti miracolistici davvero non esistono. E peraltro precipiterebbero il mondo nella noia.

 

* L’importanza di chiamarsi Ernest – regia di Oliver Parker, con Rupert Everett, Colin Firth, Reese Witherspoon - 2002

 

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Chi sono i partners?


Come tutte le parole anche partners ha “diversi” significati a seconda del contesto all'interno del quale viene utilizzato.


Come sempre è il contesto che definisce il senso.


Partners è per definizione qualcuno con cui si condivide qualcosa: obiettivi, proprietà, missione, interessi, cultura, vita, divertimento...


Un partner è:


1) un membro di una coppia sentimentale affettiva. Spesso questa parola è usata come un termine neutro che significa l'altra persona con cui si condivide la coppia. Molto spesso il termine partner è usato per definire i membri di coppie eterosessuali non sposate o di coppie omosessuali.


2) un membro di una associazione.


3) uno dei due partecipanti di una coppia di ballo.


4) un membro di una azienda, produttiva e/o commerciale composta da una struttura societaria. Talvolta i manager anziani (senior) hanno il titolo di partner, questo sta ad indicare sia che partecipano agli utili della società sia che possono essere soci (quindi proprietari di quote) della società medesima.


5) il membro di una coppia di giocatori di carte.

 

dunque

 

6) qualcuno che sia in associazione con altri in una comune attività o con comuni interessi. Significato dunque variabile a seconda del contesto.

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